IL CORONAVIRUS, LO STATO DI ECCEZIONE E NOI
È strano trovarci a scrivere queste parole. Ci consideriamo come una comunità sempre “in movimento”, che non si ferma mai, sempre pronta ad avere uno sguardo critico e attento sul mondo, una comunità che riapre i luoghi abbandonati per restituirli al quartiere e tenerli vivi, attraversabili e attraversati, pieni di voci, caos, colori, musica, eventi per grandi e bambini. Siamo quelli che fanno le cose senza paura, con la giusta incoscienza di chi è sicuro che con l’entusiasmo, l’immaginazione e la voglia di fare cambierà le cose, ma anche studiando, informandoci e discutendo tanto per farle.
E così ci troviamo a un bivio: quando si creano stati di eccezione e, di conseguenza, zone rosse, militarizzazione delle strade, controllo eccessivo ed emergenze sociali trattate come problemi securitari, siamo i primi che cercano di respingere i controlli, infrangere i divieti, eccedere nella città, rispondere aprendo ancora di più al territorio, con la certezza che l’unico modo per creare dei luoghi sicuri, siano essi spazi chiusi o strade e piazze, sia vivendoli e mettendoli a disposizione dei cittadini e delle cittadine.
Eppure questa volta c’è qualcosa di diverso. Ci troviamo a dover dire che proprio per quella attitudine a capire, informarci e interpretare cosa accade attorno a noi decidiamo per il momento di sospendere le nostre attività che prevedono l’assembramento di molte persone contemporaneamente, e quindi le scuole, gli eventi, le presentazioni e le serate.
Non si tratta di rinunciare alla socialità, ma di assumere comportamenti consapevoli per fare la nostra parte per limitare il propagarsi del contagio.
Lo diciamo senza problemi, a scanso di ogni equivoco: non sentiamo di dover prendere questi accorgimenti per adeguarci a decreti emergenziali del Governo o altre indicazioni istituzionali. Non lo facciamo nemmeno perché potremmo scoprirci incapaci di ottemperare alle indicazioni sanitarie che prevedono di stare ad un metro di distanza o, peggio ancora, per alimentare psicosi preapocalittiche, ma per senso di responsabilità e consapevolezza che in questo momento ognuno, in questa collettività, deve fare la sua parte per contenere l’epidemia che ci troviamo ad affrontare.
Non è la sua potenziale pericolosità a spaventarci, ma sappiamo che l’aumento esponenziale dei contagi metterebbe a rischio la vita dei soggetti già fragili o immunodepressi nonchè la tenuta di un Sistema Sanitario Nazionale già prossimo al collasso, e comprendiamo che la rarefazione dei contatti sociali aiuta a prevenire questo scenario.
Sappiamo di essere ancora fortunati, in un certo senso privilegiati rispetto ad altre nazioni ultraliberiste perché il nostro sistema sanitario è universale ed economicamente accessibile (è emblematico il caso del ragazzo statunitense rientrato a Miami dalla Cina a cui, dopo uno stato febbrile, sono stati chiesti 3000 dollari per l’esecuzione del tampone), ma nell’emergenzialità vengono fuori tutte le drammatiche conseguenze di ciò che negli anni della crisi economica abbiamo denunciato.
I 37 miliardi di tagli alla sanità dal 2010 ad oggi (fonte: rapporto GIMBE 2019), applicati indifferentemente da Governi di qualsiasi colore, si sono oggi tradotti in: blocco del turnover che ha imposto per il personale medico una sola assunzione ogni tre pensionamenti e la mancanza di veri e propri concorsi per graduatorie ormai dagli anni ‘90, il non raggiungimento del numero necessario di borse di specializzazione per i giovani medici e mediche da immettere nel SSN, operatori e operatrici sanitarie assunti solo tramite cooperativa con stipendi da fame, turni da 12 ore, riduzione dei posti letto e chiusura degli ospedali più piccoli e dei presidi territoriali a favore del concentramento dell’assistenza nei policlinici o nei maxipoli metropolitani mettendo a dura prova la tenuta di queti ultimi.
Ora, nel pieno di una pandemia, ci si rende conto che il sistema sanitario non sarebbe in grado di assistere i cittadini e le cittadine nel modo più appropriato e ci si affretta per decreto a rifinanziare e riorganizzare alcuni reparti (che comunque resteranno indietro nello svolgimento del lavoro “ordinario”, sempre a scapito della qualità assistenziale).
A pagare saranno comunque i più deboli, chi non ha possibilità di scegliere di curarsi a pagamento nel sistema privato, sistema che non conosce mai crisi.
L’economia deve andare avanti, bisogna dare sostegno alle imprese e ai lavoratori della classe media.Chapeu. Però c’è qualcuno che avanti non ci va: come detto, in tempi di eccezione chi ci rimette sono sempre le fasce più deboli, di cui anche noi facciamo parte.
Nell’emergenza si vede anche questo: la totale fallacia di un welfare sempre più inesistente, inadeguato, inefficiente, fermo ai tempi del posto fisso e che non ha saputo rinnovarsi per sostenere le nuove forme del lavoro non tutelate in tempi normali, figuriamoci in crisi epidemica. Le partite IVA, i precari e le precarie, i lavoratori e le lavoratrici dello spettacolo, chi lavora in nero o a chiamata, così come i genitori che non possono pagare una babysitter per le prossime due settimane restano indietro, o restano a casa senza uno stipendio, senza supporto, senza contributi economici, senza manco una parola da parte di chi poi si straccia le vesti se le borse chiudono in ribasso di uno zero virgola.
Anzi, non solo ci lasciano indietro, ci lasciano anche un po’ più soli.
Però, così come quando vediamo fra le mura grigie e un po’ sporche di un palazzo abbandonato il prossimo luogo che libereremo e riempiremo di musica e colori, sappiamo che insieme tutto è possibile. È quello che facciamo: stare in movimento, senza fermarci, gli uni vicini alle altre, creando reti di auto aiuto e mutuo soccorso perché sappiamo che solo insieme possiamo rendere possibile ciò che altri riescono a malapena a immaginare.
Quindi ci fermiamo, ma non chiudiamo. E, non appena le condizioni lo permetteranno, ripartiremo come sempre con tutte le attività.